2010
Mi arriva una richiesta di consulenza da parte di una persona che abita all’estero.
Come gestire logisticamente la consulenza?
Non posso di certo chiederle di raggiungermi una volta a settimana o due, per un paio d’ore.
Decido, quindi, di farla venire a Roma per un paio di giorni, per riuscire a conoscerla abbastanza bene da poter impostare un percorso che avremmo continuato, poi, al telefono o via Skype.
Non avevo certezze, ma razionalmente mi sembrava la cosa più sensata da fare.
Poi è successo che, entrate in quell’appartamento, è stato come se il mondo esterno non esistesse più. La persona ha iniziato a raccontarmi la sua vita e quale problema l’avesse portata a chiedermi consulenza. Da lì, è scaturito un dialogo di confronto, incentrato unicamente su di lei e sulla sua vita, che non si è più fermato fino a tarda notte.
Confronto che è proseguito anche tutta la giornata successiva, in una sensazione di assenza del tempo in quello spazio mai invaso da niente e nessuno. Solo noi. Senza tempo, a vagare dentro di lei, a visitare ogni anfratto di vita presente e passata, per capire dove stesse il suo futuro.
Confronto che ha raggiunto una profondità di condivisione che non avevo mai avvertito, in nessuna consulenza, ma nemmeno negli altri àmbiti della mia vita.
Il terzo giorno, al termine del tempo insieme, guardando quella persona andare via ho provato una sensazione per me letteralmente illuminante: stava tornando nella sua vita con una consapevolezza di sé completamente diversa da quando l’aveva lasciata.
Me lo disse proprio, prima di uscire. Disse che andava a guardare il suo mondo con occhi diversi.
Era leggermente in ansia perché tutto era cambiato dentro di lei, disse, quindi non sapeva come si sarebbe sentita di fronte alle persone che la conoscevano in un certo modo da sempre…
Sapeva di dover affrontare un periodo in cui le persone sarebbero state destabilizzate dal suo cambiamento, ma si sentiva sicura e soprattutto aveva perso il bisogno di farsi accettare da tutti, di dover corrispondere sempre alle aspettative altrui. Aveva davanti un periodo di scelte importanti, che avrebbero definito un nuovo modo di vivere.
Guardandola allontanarsi e poi sparire in mezzo alla gente, ho avuto la sensazione di aver aiutato quella persona a partorire il nucleo di sé… quello che, quando era arrivata, era schiacciato da tutte le sovrastrutture accumulate negli anni, da tutte le fatiche di relazione che si portava appresso.
Uso il termine partorire, perché rende davvero ciò che era successo: non avevo istruito quella persona, l’avevo guidata e supportata nel tirare fuori da sé ciò che voleva essere.
Ho avuto quasi un delirio di onnipotenza, per un attimo.
Lo stesso che da infermiera avevo sentito una notte, al termine di un fatto.
Ero giunta in ambulanza a casa di una partoriente, non c’era il tempo di correre in ospedale e mantenendomi salda - anche se non avevo mai fatto nascere un bambino e avevo una paura tremenda – ho supportato quella donna con comprensione per il suo dolore e con l’accoglienza che viene dal dire “Non sei sola, lo facciamo insieme, ok?”
Le ho spiegato cosa saremmo andate a fare, ho respirato con lei, ho stretto i denti mentre lei spingeva, le ho detto che sapevo che faceva male, ma sarebbe passato solo se avesse affrontato quel dolore con metodo: l’ho incitata quando voleva mollare, ho fatto pressione sulla pancia quando lei non voleva più spingere, l’ho accarezzata nei momenti di estrema spossatezza.
Quando il piccolo è uscito sono rimasta lucida, ho fatto tutto ciò che dovevo e dopo, solo dopo, mi sono fermata a guardarla con quella nuova vita in braccio.
Mi sono sentita onnipotente.
Esattamente come succede quando guardo andare via la persona che ho aiutato a partorire sé stessa.
La Maieutica. Il metodo pedagogico fondato sulla partecipazione attiva del soggetto. Il criterio socratico di ricerca della verità, consistente nella sollecitazione del soggetto pensante a ritrovarla in sé stesso e a tirarla fuori dalla propria anima.
Nel frattempo, quella notte, era arrivata un’unità di supporto con il medico a bordo, che avrebbe dovuto portare la signora in ospedale, per i controlli, ma lei ha scelto di restare a casa.
Io, che non lavoravo in E.R. Medici in prima linea, ma semplicemente ero in servizio in un Pronto Soccorso italiano degli anni Novanta, non sono ripartita per una nuova grande avventura… Sono rientrata alla centrale, mi sono seduta e ho lasciato che mi cadesse addosso tutta la tensione vissuta ma trattenuta perché, lasciarmi prendere durante il parto, sarebbe stato deleterio per tutti.
Non sono andata a casa nemmeno quando è finito il mio turno. Sono rimasta su quel divano fino a che non ho finito di rivivere l’accaduto e analizzare il mio comportamento, per capire se avevo fatto tutto ciò che dovevo, se avrei potuto fare di meglio, se ero affidabile. Le urla di quella donna, completamente affidata a me, mi rimbombavano in testa e si rimestavano alle immagini di certi momenti, di certi passaggi.
Questo è esattamente ciò che mi succede dopo una consulenza: subito c’è una sorta di delirio di onnipotenza, poi – appena dieci minuti dopo – mi abbandono alla mia fatica e, per almeno dieci giorni dopo aver finito la consulenza, mi dedico a me stessa.
Ripenso alle parole che ho ascoltato e a quelle che ho detto. Mi chiedo se avrei potuto sceglierne di migliori in certi passaggi. Rivedo e risento il dolore di quella persona, soprattutto quello che prova nei momenti in cui vado a creare fratture interiori, sapendo di provocare un dolore che però è necessario a ricostruirsi.
Per una media di otto giorni, rielaboro il tutto per poi lasciarlo andare.
Perché stare concentrati per 48 ore sull’altro, persona sconosciuta, è tutt’altro che facile. Significa dimenticarsi di sé stessi, sconnettersi dal Sé per sentire totalmente quello dell’altro. Servono giorni per ritrovarsi.
Guardando andare via la prima cliente di quello che sarebbe poi diventato il mio metodo specifico, ho realizzato quanto fosse stata proprio la dinamica in sé a permettere che quella persona mi seguisse nell’elaborazione senza mai distrarsi. Ed era stata proprio quella sensazione di essere fuori dal mondo a concedere anche a me la possibilità di inoltrarmi in un dialogo sempre più profondo e sincero. Una ricerca dei tasti giusti da toccare che, in quello spazio sospeso e nell'assenza del tempo, aveva abbattuto tutte le resistenze da parte sua.
Mi viene da dire “senza mai interrompere lo stimolo cerebrale”.
Sinapsi dopo sinapsi, eravamo arrivate a essere praticamente un’unica persona: lei la parte soggettiva ed emotiva, io quella oggettiva che - pur empatizzando - la portava a razionalizzare, a confutare le convinzioni distorte, a dividere le cose positive della sua vita da quelle negative, fino a trovare un equilibrio scevro di illusioni o visioni distorte, costruito sui punti di forza.
Sulle prime ho pensato che potesse essere stato un caso, ma nel proseguire il lavoro con le consulenze a ore sentivo una sorta di disagio nel percorso canonico: due ore a settimana. Mesi.
Per quasi un anno mi ha trattenuta il bisogno di capire se il cambiamento avviato nella consulenza, con quella persona, le avesse poi dato un beneficio duraturo. Preso atto che la persona aveva tratto beneficio al punto da ricalcolare la sua vita crescentemente e diceva di aver trovato Ben Essere, ho preso la decisione.
Scoprire l’efficacia di quella dinamica attuata per caso, mi ha quindi spinta a elaborare con metodo la potenzialità di un’immersione totale di quel genere: mettere in atto il cambiamento in 48 ore.
E avevo chiaro che il suo valore non stava nella velocità, quanto nella profondità di interazione che quella dinamica favoriva.
A oggi, sono undici anni che faccio consulenza preferibilmente con questo metodo.
Ogni volta che sto aspettando la persona che ha prenotato la consulenza, ripenso a quel parto.
Mi arriva una richiesta di consulenza da parte di una persona che abita all’estero.
Come gestire logisticamente la consulenza?
Non posso di certo chiederle di raggiungermi una volta a settimana o due, per un paio d’ore.
Decido, quindi, di farla venire a Roma per un paio di giorni, per riuscire a conoscerla abbastanza bene da poter impostare un percorso che avremmo continuato, poi, al telefono o via Skype.
Non avevo certezze, ma razionalmente mi sembrava la cosa più sensata da fare.
Poi è successo che, entrate in quell’appartamento, è stato come se il mondo esterno non esistesse più. La persona ha iniziato a raccontarmi la sua vita e quale problema l’avesse portata a chiedermi consulenza. Da lì, è scaturito un dialogo di confronto, incentrato unicamente su di lei e sulla sua vita, che non si è più fermato fino a tarda notte.
Confronto che è proseguito anche tutta la giornata successiva, in una sensazione di assenza del tempo in quello spazio mai invaso da niente e nessuno. Solo noi. Senza tempo, a vagare dentro di lei, a visitare ogni anfratto di vita presente e passata, per capire dove stesse il suo futuro.
Confronto che ha raggiunto una profondità di condivisione che non avevo mai avvertito, in nessuna consulenza, ma nemmeno negli altri àmbiti della mia vita.
Il terzo giorno, al termine del tempo insieme, guardando quella persona andare via ho provato una sensazione per me letteralmente illuminante: stava tornando nella sua vita con una consapevolezza di sé completamente diversa da quando l’aveva lasciata.
Me lo disse proprio, prima di uscire. Disse che andava a guardare il suo mondo con occhi diversi.
Era leggermente in ansia perché tutto era cambiato dentro di lei, disse, quindi non sapeva come si sarebbe sentita di fronte alle persone che la conoscevano in un certo modo da sempre…
Sapeva di dover affrontare un periodo in cui le persone sarebbero state destabilizzate dal suo cambiamento, ma si sentiva sicura e soprattutto aveva perso il bisogno di farsi accettare da tutti, di dover corrispondere sempre alle aspettative altrui. Aveva davanti un periodo di scelte importanti, che avrebbero definito un nuovo modo di vivere.
Guardandola allontanarsi e poi sparire in mezzo alla gente, ho avuto la sensazione di aver aiutato quella persona a partorire il nucleo di sé… quello che, quando era arrivata, era schiacciato da tutte le sovrastrutture accumulate negli anni, da tutte le fatiche di relazione che si portava appresso.
Uso il termine partorire, perché rende davvero ciò che era successo: non avevo istruito quella persona, l’avevo guidata e supportata nel tirare fuori da sé ciò che voleva essere.
Ho avuto quasi un delirio di onnipotenza, per un attimo.
Lo stesso che da infermiera avevo sentito una notte, al termine di un fatto.
Ero giunta in ambulanza a casa di una partoriente, non c’era il tempo di correre in ospedale e mantenendomi salda - anche se non avevo mai fatto nascere un bambino e avevo una paura tremenda – ho supportato quella donna con comprensione per il suo dolore e con l’accoglienza che viene dal dire “Non sei sola, lo facciamo insieme, ok?”
Le ho spiegato cosa saremmo andate a fare, ho respirato con lei, ho stretto i denti mentre lei spingeva, le ho detto che sapevo che faceva male, ma sarebbe passato solo se avesse affrontato quel dolore con metodo: l’ho incitata quando voleva mollare, ho fatto pressione sulla pancia quando lei non voleva più spingere, l’ho accarezzata nei momenti di estrema spossatezza.
Quando il piccolo è uscito sono rimasta lucida, ho fatto tutto ciò che dovevo e dopo, solo dopo, mi sono fermata a guardarla con quella nuova vita in braccio.
Mi sono sentita onnipotente.
Esattamente come succede quando guardo andare via la persona che ho aiutato a partorire sé stessa.
La Maieutica. Il metodo pedagogico fondato sulla partecipazione attiva del soggetto. Il criterio socratico di ricerca della verità, consistente nella sollecitazione del soggetto pensante a ritrovarla in sé stesso e a tirarla fuori dalla propria anima.
Nel frattempo, quella notte, era arrivata un’unità di supporto con il medico a bordo, che avrebbe dovuto portare la signora in ospedale, per i controlli, ma lei ha scelto di restare a casa.
Io, che non lavoravo in E.R. Medici in prima linea, ma semplicemente ero in servizio in un Pronto Soccorso italiano degli anni Novanta, non sono ripartita per una nuova grande avventura… Sono rientrata alla centrale, mi sono seduta e ho lasciato che mi cadesse addosso tutta la tensione vissuta ma trattenuta perché, lasciarmi prendere durante il parto, sarebbe stato deleterio per tutti.
Non sono andata a casa nemmeno quando è finito il mio turno. Sono rimasta su quel divano fino a che non ho finito di rivivere l’accaduto e analizzare il mio comportamento, per capire se avevo fatto tutto ciò che dovevo, se avrei potuto fare di meglio, se ero affidabile. Le urla di quella donna, completamente affidata a me, mi rimbombavano in testa e si rimestavano alle immagini di certi momenti, di certi passaggi.
Questo è esattamente ciò che mi succede dopo una consulenza: subito c’è una sorta di delirio di onnipotenza, poi – appena dieci minuti dopo – mi abbandono alla mia fatica e, per almeno dieci giorni dopo aver finito la consulenza, mi dedico a me stessa.
Ripenso alle parole che ho ascoltato e a quelle che ho detto. Mi chiedo se avrei potuto sceglierne di migliori in certi passaggi. Rivedo e risento il dolore di quella persona, soprattutto quello che prova nei momenti in cui vado a creare fratture interiori, sapendo di provocare un dolore che però è necessario a ricostruirsi.
Per una media di otto giorni, rielaboro il tutto per poi lasciarlo andare.
Perché stare concentrati per 48 ore sull’altro, persona sconosciuta, è tutt’altro che facile. Significa dimenticarsi di sé stessi, sconnettersi dal Sé per sentire totalmente quello dell’altro. Servono giorni per ritrovarsi.
Guardando andare via la prima cliente di quello che sarebbe poi diventato il mio metodo specifico, ho realizzato quanto fosse stata proprio la dinamica in sé a permettere che quella persona mi seguisse nell’elaborazione senza mai distrarsi. Ed era stata proprio quella sensazione di essere fuori dal mondo a concedere anche a me la possibilità di inoltrarmi in un dialogo sempre più profondo e sincero. Una ricerca dei tasti giusti da toccare che, in quello spazio sospeso e nell'assenza del tempo, aveva abbattuto tutte le resistenze da parte sua.
Mi viene da dire “senza mai interrompere lo stimolo cerebrale”.
Sinapsi dopo sinapsi, eravamo arrivate a essere praticamente un’unica persona: lei la parte soggettiva ed emotiva, io quella oggettiva che - pur empatizzando - la portava a razionalizzare, a confutare le convinzioni distorte, a dividere le cose positive della sua vita da quelle negative, fino a trovare un equilibrio scevro di illusioni o visioni distorte, costruito sui punti di forza.
Sulle prime ho pensato che potesse essere stato un caso, ma nel proseguire il lavoro con le consulenze a ore sentivo una sorta di disagio nel percorso canonico: due ore a settimana. Mesi.
Per quasi un anno mi ha trattenuta il bisogno di capire se il cambiamento avviato nella consulenza, con quella persona, le avesse poi dato un beneficio duraturo. Preso atto che la persona aveva tratto beneficio al punto da ricalcolare la sua vita crescentemente e diceva di aver trovato Ben Essere, ho preso la decisione.
Scoprire l’efficacia di quella dinamica attuata per caso, mi ha quindi spinta a elaborare con metodo la potenzialità di un’immersione totale di quel genere: mettere in atto il cambiamento in 48 ore.
E avevo chiaro che il suo valore non stava nella velocità, quanto nella profondità di interazione che quella dinamica favoriva.
A oggi, sono undici anni che faccio consulenza preferibilmente con questo metodo.
Ogni volta che sto aspettando la persona che ha prenotato la consulenza, ripenso a quel parto.