L’unica certezza della mia vita, fin dal liceo, è stata l’aspirazione a essere come Socrate: ho preso tutto ciò che mi serviva da ogni filosofo, psicologo, sociologo e educatore che ho studiato, ma durante il mio arco di evoluzione ho capito che in Socrate mi ci sono proprio immedesimata.
L’acquisizione di consapevolezza più recente, invece, è che se fossi nata un paio di decenni prima sarei finita fisicamente al manicomio. Sembra una battuta, ma non lo è… e più avanti capirai il perché.
Se l’identità personale è in continuo cambiamento, lo dobbiamo all’apprendimento, alle esperienze che viviamo, alla nostra modalità di elaborarle e all’importanza che diamo alla consapevolezza.
Cambiare, ricalcolarsi – a seconda di come evolvono il nostro contesto e le nostre stesse esigenze psico-emotive – è necessario, se il nostro fine è vivere una buona vita.
Perché UNA ne abbiamo.
L’acquisizione di consapevolezza più recente, invece, è che se fossi nata un paio di decenni prima sarei finita fisicamente al manicomio. Sembra una battuta, ma non lo è… e più avanti capirai il perché.
Se l’identità personale è in continuo cambiamento, lo dobbiamo all’apprendimento, alle esperienze che viviamo, alla nostra modalità di elaborarle e all’importanza che diamo alla consapevolezza.
Cambiare, ricalcolarsi – a seconda di come evolvono il nostro contesto e le nostre stesse esigenze psico-emotive – è necessario, se il nostro fine è vivere una buona vita.
Perché UNA ne abbiamo.
Da ragazzina detestavo il mio nome. Lo percepivo vecchio e scomodo.
Ero l’unica Grazia che conoscessi, a parte la figlia della mia severa maestra: una ragazza che aveva una quindicina di anni più di me e, quindi, per me era vecchia. Invidiavo le Barbara, le Stefania e la mia amica Denise soprattutto, perché lei aveva un nome addirittura all’avanguardia per il paese di nemmeno tremila anime in cui sono cresciuta.
Il mio nome lo ha deciso Lucia, un’amica di mia madre, guardando il calendario. Così mi hanno raccontato e ti riporto, anche se nel calendario Grazia non esiste, l’onomastico si festeggia nel giorno della Madonna delle Grazie. Cosa che, essendo nata al Nord dove l’onomastico non ha praticamente valore, ho appreso da adulta ricevendo gli auguri da parte di amici campani.
Comunque, sono cresciuta replicando milioni di volte “Solo Grazia, grazie!” al mondo intero che sembrava avere una missione nel chiamarmi Mariagrazia. Primo tra tutti don Alfredo, il parroco che si era legato al dito il “No” dei miei genitori a battezzarmi nel segno della Madonna e fino al suo ultimo giorno mi ha chiamata Mariagrazia.
Sempre meglio di chi “Grazia, Graziella e grazie al… cazzo” e scoppiava a ridere. E scoppia a ridere. Hai idea di quante volte me lo sia sentito dire in quarantanove anni? Non che mi offenda, ma non ho davvero mai capito cosa ci sia di divertente. Così come non ho mai compreso cosa scatti esattamente nelle persone quando allungo la mano per presentarmi e al “Piacere, Grazia” rispondono “Prego”, o quando devono ringraziarmi: nel dire “Grazie Grazia” qualcuno ride, qualcuno sembra imbarazzarsi, qualcuno si scusa del gioco di parole. Sì, dicono proprio così: gioco di parole. Boh.
Nella prima parte della mia vita ho avvertito il mio nome come qualcosa di ostico, insomma, soprattutto perché la gente manifestava spesso una sorta di problema nei suoi confronti.
Poi da adulta non me ne è più importato granché, anche se “Solo Grazia” continuo a dirlo incessantemente. È come se, nel momento in cui mi chiamano Mariagrazia, mi tornasse quella stizza fanciullesca nel non essere riconosciuta adeguata. Come se “Grazia” non fosse sufficiente e dovesse essere introdotto da qualcosa o messo dietro a qualcos’altro.
Riguardo a chi lo usa con la convinzione di essere brillante facendo una battuta, invece, ho sviluppato una sorta di rapida associazione: se pensi che io possa trovarlo divertente, devi essere una persona piuttosto banale. Non che mi offenda, ripeto, ma mi stimola proprio un 1+1 sull’egocentrismo di quella persona: davvero pensi di potermi risultare originale facendo quella battuta, dopo quarantanove anni che porto questo nome? Non è che mi picco, ma ho la sensazione di avere davanti un adulto immaturo, che si relaziona al suo interlocutore come un adolescente nella fase della “sciocchitudine”. Tutto qui.
Non mi sono mai chiesta che significato avesse il nome Grazia, tanto banale mi appariva, finché casualmente, cinque anni fa, ho trovato queste parole tra le pagine di Storia dell’estetica occidentale di Fabrizio Desideri e Chiara Cantelli:
“La bellezza è dunque un attributo divino ed essa, nell’effondere gioia e incanto, è propriamente quella riconciliazione delle forze della natura che non solo permette di raccogliere l’intero universo nell’unità di una forma, ma conferisce a ogni cosa la sua propria forma. Come tale, essa è ciò che illumina e dà luce alle cose: accordando gli opposti nell’unità della forma, essa fa uscire le cose dal fondo altrimenti oscuro e indeterminato del caos, che le inghiottirebbe e non permetterebbe loro di esprimere la propria natura o virtù. In quanto dono divino che fa risplendere le cose nella loro specificità, il bello è propriamente cháris, “grazia” riconciliatrice che suscita piacere e incanto. La cháris – di cui sono depositarie le Cariti, le furie benevole che abitano insieme alle Muse e accompagnano sempre Afrodite – esprime l’incanto e il piacere suscitato sia dalla bellezza come armonia sia dall’eccellenza individuale di una cosa, dal rifulgere della sua virtù. Questo duplice aspetto del bello come cháris è celebrato soprattutto dal poeta Pindaro. Secondo la concezione aristocratica di Pindaro, la virtù e il valore che, nel corso di una battaglia, permettono a un uomo di uscire dal silenzio dell’oscurità e di eccellere al punto tale da determinare la sorte del conflitto, ristabilendo in tal modo la concordia e l’armonia, sono propriamente cháris, dono divino, che nel momento in cui porta a coronamento ciò che è stato donato, si costituisce al tempo stesso come grazia riconciliatrice”.
Insomma, mi ci hanno “condannata” con il nome a dover cercare di tirar fuori l’armonia dai conflitti.
Mi sono adoperata con tutte le mie forze per diventare una buona educatrice e una counselor efficace, ma non mi sono inventata niente di mio. È stata Lucia a decidere che il mio senso di vita fosse la ricerca della virtù, del valore umano, dell’incanto e dell’armonia, per me e per chi si imbatte sulla mia strada.
Oggi, come mai prima d’ora, sento mio questo nome e so che già da piccola non ci volevo quel “Maria” davanti perché era come essere preceduta da qualcosa che mi teneva relegata, che non mi concedeva di essere pienamente ciò che ero, che mi voleva tenere in riga.
In riga non sono mai riuscita a starci, anche quando lo desideravo. Ho sempre combattuto ciò che consideravo sbagliato e limitante con eccessivo coinvolgimento emotivo. Era più forte di me. Mi sono esposta sempre per combattere stereotipi e pregiudizi, finanche correndo rischi personali o perdendoci, pur di restare fedele ai miei valori. Ho anche sbagliato, tanto, ma ho imparato a chiedere scusa se ferivo qualcuno e ho capito che prendersi la responsabilità delle proprie azioni è un valore aggiunto, sia in termini sociali, sia per la propria evoluzione individuale. Insomma, i primi vent’anni della mia vita sono stati piuttosto scombussolati e non mi piacevo granché.
Proprio per questo mi riconosco in quelle furie divenute benevoli ripensando all’evoluzione del mio carattere e collegando l’aspetto di “conciliatrice” alla passione che metto – sia nel personale, sia nel lavoro – nel cercare sempre armonia, empatia e oggettività, essenza, verità nuda e cruda. Che può far male, ma permette di ripartire da una base solida per costruire un equilibrio che consenta di essere sereni e poter godere della felicità.
Se stai temendo che abbia pubblicato questo scritto per autoelogiarmi, lo capisco, ma ti chiedo di sospendere il giudizio e andare oltre: se ho deciso di approfondire la mia identità qui, pubblicamente, è solo perché sono sostanzialmente pigra e preferisco pormi in maniera trasparente per non creare false aspettative in chi mi legge, ma soprattutto in chi si approccia a me per una consulenza. Se da me ti aspetti qualcosa di canonico, di predefinito, di stereotipato… non sono la professionista adeguata.
Il motivo per il quale studio psicologia da trent’anni, ma ho scelto di essere un’educatrice e una counselor filosofica, è che la mia forte componente umanista mi impone di concentrarmi sull’essenza della persona e guidarla a individuare il suo senso della vita, pur senza dovermi attenere a regole di metodo standardizzate. Per spiegarmi, il mio metodo di consulenza, che ho definito banalmente #metodoscanavini, non prevede una serie di incontri ma un’unica sessione di 48 ore continuative: due giorni in cui si esce dal mondo, chiudendosi in un appartamento confortevole che consenta di iniziare e finire ciò che è necessario fare per mettere in atto un cambiamento efficace e superare una crisi. Sarebbe utile anche in periodo non critico, ma sappiamo tutti che ci apprestiamo a trovare una soluzione solo quando il problema interiore diventa insopportabile. Perché 48 ore continuative? Perché consentono di non dover mai interrompere il dialogo di approfondimento, semplicemente, e la ricerca del nuovo equilibrio di consapevolezza, scevro di illusioni e di disillusioni.
Tengo a precisare che non intendo sminuire l’attività di psicologi e psicoterapeuti, con tanti dei quali collaboro e dei quali ho molta stima. Ho solo scelto di usare un metodo che mi permetta di coniugare la conoscenza in ambito psicologico con le competenze che ho in qualità di educatrice e di counselor filosofica, in un percorso che mi consenta di agire in una modalità pratica che ritengo più funzionale.
Per fare questo uso me e la mia vita, senza attribuirmi particolari meriti: ho inconsapevolmente portato a compimento un percorso personale che non era scontato, ho testato diversi metodi per mettere a disposizione degli altri ciò che ho appreso sia attraverso lo studio, sia mediante la sperimentazione e, avendo la certezza che la gratitudine sia un mezzo estremamente potente e indispensabile per raggiungere il Ben Essere, mi spendo totalmente per supportare chi non ha gli strumenti per superare le crisi.
Ho studiato tanto nella mia vita, continuo a farlo senza sosta, mettendomi in gioco senza risparmiarmi mai.
Siccome credo che la Vita per natura tenda sempre a un equilibrio, Lucia mi ha affidato un compito molto complesso attribuendomi questo nome, ma la natura mi ha fornito le armi per affrontarlo, facendomi nascere con il cervello adatto per farlo nel pieno rispetto dell’essenza umana. Del suo sentire. Cosa intendo?
Sono una persona gifted, non solo di nome ma anche di fatto. Ho passato i primi quarantotto anni della mia vita a cercare di far pace con il cervello, perché non sapevo di avere una struttura cerebrale che lavora attraverso il pensiero ramificato. Qui entra in gioco Basaglia. Avere questo tipo di funzionalità cerebrale significa avere una vita interiore molto complessa e anche comportamenti ritenuti piuttosto alternativi rispetto alla norma: diciamo che la sovraeccitabilità che contraddistingue le persone gifted porta ad avere livelli altissimi di potenziale emotivo ed empatico, immaginativo, sensuale, psicomotorio e intellettuale. Un simile eccesso di percezione e di ideazione, in queste persone, è motivo di ricorrenti crisi esistenziali per l’assenza di comprensione da parte di chi le circonda. Quindi, probabilmente, se fossi stata adulta prima che Basaglia decidesse di limitare la reclusione delle persone “strane”, io non me la sarei cavata. Sarei stata forzatamente curata, come se avessi una malattia. Cosa che succede tutt’ora a diverse persone che, non sapendo di essere gifted e non avendo competenze in campo psico-umanistico, non riescono a superare le crisi, vengono diagnosticate come depresse e finiscono a condurre una vita a pane, sofferenza e psicofarmaci.
L’essere gifted è una caratteristica (quindi non una malattia) che sembra appartenere a una bassa percentuale della popolazione, che vede la massima espressione evolutiva nel bene comune. Per superare le crisi evolvendo nello sviluppo della personalità, le persone gifted hanno una sola possibilità: imparare la dinamica della disintegrazione positiva.
Sostanzialmente consiste nel disintegrare il proprio Sé nel momento in cui si entra in crisi esistenziale: si mettono tutte le tessere che lo compongono sul tavolo, si dividono quelle negative da quelle positive. Le negative le si porta “giù in cantina”, come memoria di esperienza vissuta e acquisita, mentre con quelle positive ci si costruisce un nuovo Sé e si riprende a vivere più in leggerezza, senza avere sempre tra i piedi la pesantezza delle esperienze negative. Si impara a riconoscere e a lasciarsi guidare dai propri punti di forza, insomma, dismettendo invece quelli che inducono al Mal Essere.
Capisci bene che conoscerli è fondamentale per raggiungere una vita serena. Ignorarli equivale a non disporre degli strumenti necessari per esprimere in modo positivo la propria essenza.
Le persone che sono state in consulenza da me sanno che è ciò che educo a fare nel mio percorso, da oltre dieci anni. Sanno che è possibile, che è una svolta nel modo di vivere e che funziona. Ma non sanno, perché io stessa non lo sapevo, che è una dinamica strutturata al punto che Kazimierz Dąbrowski, psicologo e psichiatra polacco, aveva avviato studi ben specifici.
L’ho scoperto solo alcuni mesi fa, quando ho appreso di essere una persona gifted, e ti garantisco che non è stata una passeggiata perché ho dovuto rileggere la mia vita da capo, ma oggi sono grata… per me e per chi trarrà Ben Esseredall’impegno umano che ho messo e metto nel cercare armonia, nel condividere ciò che apprendo nella speranza che anche altri possano goderne.
Non mi dilungo oltre con spiegazioni, voglio solo stimolarti a pensare che una vita in armonia è possibile e che non lo dico per illuderti o per vantarmi, anzi… scoprire di essere una persona gifted significa capire che non hai fatto proprio niente di straordinario nel costruirti una vita che tende sempre alla positività e alla bellezza. Ci sei nato. Ci sei nata.
La cosa straordinaria che mi ha concesso lo scoprirmi gifted è che la disintegrazione positiva, che io ho messo in atto per intuito, può essere insegnata. Non occorre essere persone gifted per imparare a metterla in pratica.
Ecco, quindi, cosa faccio io: attraverso il counseling guido alla disintegrazione e attraverso l’educazione accompagno alla ricostruzione positiva. Lo faccio nelle consulenze e lo faccio scrivendo.
Metto a disposizione di chi vuole lo strumento che la natura mi ha dato per costruire una vita all’insegna dell’armonia. E lo faccio perché la mia struttura della personalità mi impone di condividere ciò che so per il bene comune.
Lo trovi altezzoso? Ritieni che sia supponente credere di poter insegnare a qualcun altro come vivere meglio la propria vita?
Io no. Sono trent’anni che studio filosofia, le scienze umane e tutte le scienze dell’educazione. Educare al Ben Essere è il senso della mia vita: apprendo cose, le metto a disposizione di chi non ha avuto la possibilità di conoscerle e ne ha bisogno per la propria crescita individuale (o è in crisi e vuole superarla), e lo faccio con tutta l’umanità che mi è possibile.
Sono come una compagna di banco che ha la calcolatrice e, durante un compito in classe di matematica, la presta a chi non ce l’ha. Non ha meriti, se non quello di condividere uno strumento che possiede e, sapendo che potrebbe favorire un miglioramento della condizione altrui, lo offre.
È talmente grata di avere la calcolatrice che, nel porgerla, nel dare a qualcuno la possibilità di uscire più agevolmente da una difficoltà, si sente in armonia con la sua natura.
Niente di più.
È talmente grata di avere la calcolatrice che, nel porgerla, nel dare a qualcuno la possibilità di uscire più agevolmente da una difficoltà, si sente in armonia con la sua natura.
Niente di più.