Stai ferma lì.
Vengo a prenderti io.
Vengo a prenderti io.
Ti chiedo di avere la pazienza di leggere con attenzione questo scritto, con il quale ti introduco alcuni concetti perché voglio che ti sia chiaro cosa significa “Metodo Scanavini” quando parliamo di relazione tossica.
Partiamo da me.
Io sono un’educatrice e una counselor filosofica. Ciò che conosco è il frutto dello studio dei contenuti condivisi da professionisti e scienziati competenti. Sono trent’anni che studio testi, partecipo a convegni, guardo e riguardo i video in cui spiegano concetti complessi, mi relaziono con alcuni di loro, con il massimo rispetto e la massima stima. Loro sono il cemento nel quale io ho basato le mie fondamenta. Loro mi danno quella conoscenza che a me serve per costruire al meglio i percorsi educativi, rieducativi, i progetti e le consulenze; e sono quelli che mi permettono di essere il più oggettiva possibile quando faccio ricerca o quando devo costruire un prodotto (che sia un articolo, un libro, un contenuto filmico) che abbia un buon potenziale educativo, funzionale ed efficace.
Userò spesso questi due termini, perché sono i miei pesi: funzionale (ha la potenzialità di favorire il raggiungimento dell’obiettivo specifico?) ed efficace (funziona davvero?).
Ho studiato fin da giovanissima le scienze umanistiche e quelle che interagiscono: la filosofia, la psicologia, la pedagogia, la sociologia, l’antropologia, la biologia e via dicendo. Non ho mai smesso, continuo a studiare imperterrita, non posso farne a meno. Il sentire umano mi affascina. Le persone e le società mi affascinano. Vedere le persone soffrire, invece, mi fa stare male. Soprattutto quando penso che, se avessero gli strumenti per capire le dinamiche di relazione interpersonale e gestirle con consapevolezza, potrebbero vivere molta meno sofferenza.
Ho lavorato parecchio sul mio potenziale empatico (cognitivo e affettivo) e sui metodi di comunicazione per capire come educare e rieducare le persone alle relazioni interpersonali, affettive e non, per far sì che potessero imparare a gestirle in modo costruttivo.
Sono un’educatrice, come dicevo, quindi, il mio compito non è né sentenziare né dispensare verità, ma contribuire alla crescita umana della persona, a qualsiasi età (anche se siamo abituati a legare il concetto di Educazione solo ai bambini o ai ragazzi).
I campi dell’educazione sono tantissimi e si differenziano nei metodi, nei contenuti, nel linguaggio e in diversi altri aspetti ancora, ovviamente, ma sono tutti accomunati da un aspetto: un percorso educativo è più efficace quanto più è personalizzato e centrato sull’educando, l’individuo che deve crescere, che deve lasciare la situazione in cui si trova per raggiungerne una migliore.
Chi si trova nella condizione di immobilità emotiva (dissonanza cognitiva) perché coinvolta in una relazione tossica ha bisogno di affrontare un percorso di rieducazione mediante il quale riappropriarsi con consapevolezza delle proprie capacità di scelta e di azione.
Durante i percorsi educativi affrontati, ho capito che posso essere efficace e funzionale nel favorire la crescita umana di una persona in crisi solo se – sospendendo il giudizio, accogliendo e comprendendo – riesco a calarmi nei suoi panni pur restando obiettiva e a usare un linguaggio adeguato, affinché possa affidarsi, capirmi e seguirmi nel guadagnare l’uscita dal labirinto emotivo in cui è finita.
Quel che dico genericamente alle persone che mi chiedono una consulenza è questo:
“Se mi stai chiedendo aiuto è probabile che tu abbia appena scoperto di essere vittima di manipolazione, o comunque invischiata in una relazione tossica. O che tu ne sia consapevole da tempo, ma non trovi la direzione necessaria da prendere per uscirne.
Forse hai già letto centinaia di contenuti sul web, andando a cercare la testimonianza in cui riconoscere totalmente ciò che è successo a te, ma in ognuno dei racconti hai trovato qualcosa che ti ha messo il dubbio che forse no... forse lui non è proprio un manipolatore maligno o forse la vostra relazione non è proprio tossica.
Forse hai ingigantito tutto sull’onda di quello che altri ti hanno detto.
Forse sei stata davvero tu a rovinare tutto, se questo ti ha detto lui.
Forse basterebbe credergli un’ultima volta, provarci ancora e saprebbe dimostrarti che ti ama, e tutto tornerebbe a
essere magnifico.
Forse hai ancora dubbi o forse sai già - razionalmente - che devi uscirne, ma non hai capito esattamente cosa devi fare.
Non devi fare niente, per ora. Non devi decidere nulla.
So che costa fatica anche quello, perché in certi momenti l’angoscia e la sensazione di non poterti più fidare di te stessa
ti schiacciano il respiro fino a farti sentire stremata, e senti che se non fai qualcosa impazzisci. Lo so.
Se deciderai di affrontare il percorso con me, tu dovrai solo stare ferma lì e io verrò a prenderti.”
Hai mai visto il film Argo? È un lungometraggio (che ti consiglio di vedere) che ha fatto incetta di Oscar e tantissimi altri premi prestigiosi. Film in cui Ben Affleck (nei panni di Tony Mendez) parte dagli Stati Uniti per andare a Teheran e riportare a casa sei diplomatici americani rifugiatisi all’ambasciata canadese durante la rivoluzione islamista. È un film, ma racconta fatti realmente accaduti. Sembrava impossibile portarli fuori dall’Iran. I burocrati americani avevano ipotizzato soluzioni per le quali i sei avrebbero potuto, per esempio, attraversare l’Iran in bicicletta. Ma Ben Affleck, esperto in esfiltrazioni, non ci sta: sa che dire loro “Fate così, noi vi aspettiamo al confine” sarebbe come mandarli a morte certa. Sa che è necessario andare lì dove si trovano, istruirli, guidarli e accompagnarli verso la salvezza, stando loro accanto.
Ideando una copertura al limite della creatività, li raggiunge, si amalgama al gruppo, li istruisce a una narrazione alternativa della loro identità facendo loro ripetere all’infinito ciò che devono necessariamente apprendere, se vogliono uscire da lì, e poi li guida in un viaggio di ritorno difficile, impegnativo e rischioso. Ma, da soli, non ce l’avrebbero mai fatta.
Ecco. Io non sono esattamente Ben Affleck, ma con questo mio metodo verrò a cercarti nell’esatto stato emotivo in cui ti trovi, attraverso il counseling elaborerò insieme a te certi concetti all’infinito e in modi diversi affinché tu possa introiettare una narrazione alternativa alla situazione in cui sei finita e ti mostrerò che c’è una via d’uscita. Devi solo seguirmi.
Saremo tu e io.
Ben Affleck, quando arriva a Teheran e si trova davanti ai sei rifugiati, non dà tante spiegazioni. Dice loro che è lì per portarli fuori. Loro vogliono sapere come.
Lui spiega loro il piano che ha ideato e preparato nei minimi particolari. Un piano talmente da film che i sei restano sconcertati: hanno mille dubbi che possa riuscire e considerano Ben Affleck un pazzo scatenato e irresponsabile. Ma quale alternativa hanno? Provarci da soli, buttarsi in mezzo alla strada e affidarsi alla fortuna, sperando di non finire impiccati o con la gola tagliata.
Lui, dal canto suo, sa che il piano può funzionare solo se tutto va come deve andare. Ha provato a prevedere più variabili possibili e a disegnare il percorso ideale per evitare che quelle variabili mettano a rischio la riuscita. Ha paura anche lui, sia chiaro, perché non sa come potranno reagire i sei nelle diverse fasi del piano e non sa esattamente quali variabili esterne inaspettate potranno intervenire.
Ne sente il peso, ma fa di tutto per dare la sicurezza necessaria affinché i sei si affidino a lui totalmente.
Ecco perché penso che sia utile spiegarti come sono arrivata a ideare un metodo educativo piuttosto creativo ed esclusivo. Le relazioni tossiche hanno dinamiche talmente complesse che, per tirare fuori chi ci è finito, c’è bisogno di un piano alternativo rispetto a ciò che siamo abituati a vivere nella normalità.
Dopo anni di studio sui disturbi della personalità, non riuscivo a capire perché, se ovunque è possibile reperire materiale condiviso da professionisti che spiegano perfettamente come uscire da una relazione tossica, le persone in sofferenza non riuscissero a mettere in atto le strategie consigliate.
Come se da una parte ci fossero i professionisti, capaci e competenti, a elargire parole e concetti di aiuto e, dall’altra, le persone che soffrono e non sanno capire come ci si emancipa da quella sofferenza, come se ne esce.
Ho avuto la sensazione che in mezzo ci fosse una sorta di parete invisibile, che frammentasse le informazioni, e ho ipotizzato che, ricevendo le informazioni frammentate, i sofferenti non avessero la possibilità di capire in modo chiaro cosa dovessero fare.
Poi ho pensato, invece, che funzionasse esattamente come in quel film: le indicazioni dei burocrati ai sei rifugiati avrebbero, sì, insegnato la via per uscire dall’Iran, ma durante il percorso quei sei avrebbero incontrato talmente tanti ostacoli, bivi e situazioni devianti, che la riuscita sarebbe stata per forza di cose un’incognita. Non che i sei fossero degli inetti, ma si trovavano in una situazione talmente confusa, caotica e lontana da ciò̀ che conoscevano, che non avrebbero avuto gli strumenti per affrontare le variabili di percorso inaspettate. I burocrati erano assolutamente necessari: solo loro erano in grado di fornire le risorse per garantire che il piano fosse attuabile e Ben Affleck potesse andare a prendere i sei.
Risorse (in quel caso soldi e scogli, appunto, burocratici) che Ben Affleck ha trasformato in ciò che di specifico serviva ai sei. Se avesse portato loro i soldi, i sei non avrebbero saputo che farsene, nella situazione in cui si trovavano.
Il ruolo di chi educa, in spiccioli, è proprio questo: usare la conoscenza che i professionisti mettono a disposizione, indispensabile per raggiungere chi ha bisogno di migliorare la propria condizione e per mettere in atto il percorso educativo affinché quelle persone apprendano ciò che serve loro per affrontare il viaggio necessario al cambiamento della situazione. Ma, affinché la conoscenza scientifica sia fruibile da parte di chi si trova in una certa situazione, serve che l’educatore la trasformi in un linguaggio facilitato: deve tradurre i concetti in modo che chi deve apprenderli possa capirli e usarli.
Ho quindi deciso che dovevo fare questo:
- approvvigionarmi della conoscenza (dagli scienziati e dai professionisti),
- elaborare un piano educativo (basandomi sulla conoscenza, capire quali strategie potevo mettere in atto per educare i manipolati a emanciparsi dalla situazione di immobilità emotiva),
- assumermi la responsabilità di tradurre quei concetti così complessi in ragionamenti semplici e parole che facessero parte del quotidiano di quelle persone, in modo da permettere loro di seguirmi facendo meno fatica possibile.
Quando ho iniziato a fare l’esfiltratrice, però, ho avuto subito chiaro che c’era un problema. Davo appuntamenti bisettimanali di due ore. La persona arrivava, ci aggiornavamo su cosa fosse accaduto durante i giorni in cui non ci eravamo viste e poi proseguivamo a parlare ma, nel momento in cui si arrivava alla profondità di dialogo ideale per elaborare le questioni complesse, scadeva il tempo. Interrompere era avvilente e nella seduta successiva accadeva la stessa cosa.
Inoltre, tra una seduta e l’altra, capitava che qualcuno si ammalasse o avesse impegni, quindi la seduta slittava. O che alla persona succedessero cose che andavano a minare gli step intermedi che avevamo raggiunto, e toccava quasi ripartire da capo, o comunque fare deviazioni di percorso che toglievano energia e determinazione.
Qui ho fatto una scelta alla Ben Affleck: “Per esfiltrare, abbiamo 48 ore! È difficile, impegnativo e rischioso, ma se vi affidate e mi seguite, ne usciamo vivi tutti.”
Ecco perché questo metodo ed ecco perché un piano alternativo e creativo.
Chi mi chiede una consulenza deve essere disposto a uscire dal mondo, per quarantotto ore. Per decidere di chiudersi con me in un appartamento deve essere consapevole che quando uscirà saranno cambiate moltissime cose, perché io sarò più oggettiva possibile e noi non siamo abituati all’oggettività: l’oggettività in un certo modo fa male. Ma io sono lì, sempre. Mi adatto ai tempi dell’altro e ai suoi stati d’animo, tenendo ben presente l’obiettivo.
In tutto questo, non esprimo mai un giudizio sulla persona; non perché mi so gestire e giudico senza dirlo, ma perché giudicare mi farebbe perdere - tempo e soprattutto – di vista l’obiettivo. Il mio compito è solo quello di portarla via.
A me non cambia nulla che la persona sia arrivata lì per un motivo o per un altro, o che si sia lasciata fare cose che si vergogna a dire.
Io ho bisogno di saperle. Sapere cos’ha vissuto per capire come portarla via.
Altrimenti è come se Ben Affleck avesse avuto delle informazioni sbagliate sui sei... avrebbe messo in atto strategie inadeguate. E ho bisogno di saperle per capire come addestrare la persona a riconoscere certi comportamenti come alertdi situazione tendenzialmente pericolosa.
Insomma, ho pensato che quando stai male, sei stremata e/o ti senti in pericolo, vorresti solo fermarti e non dover più fare e decidere niente. Vorresti che arrivasse qualcuno che ti prendesse e ti portasse al sicuro. E ho strutturato questo metodo perché mi sembra il più appropriato per farlo.
Qualunque metodo efficace va bene, sia chiaro. Questo è il mio: counseling e educazione. In quelle quarantotto ore, ci si estranea completamente dal mondo (telefoni spenti) e si intrattiene un dialogo continuo. Lavoro così.
Non ti annoio oltre con il metodo. Volevo spiegarti che non è una scelta casuale e da dove vengono i miei strumenti.
Nella mia testa, quando penso a una donna che non riesce a uscire da una relazione tossica, vedo un LABIRINTO dentro al quale si sta sfinendo nel cercare l’uscita, tentando vie cieche o affidandosi alle indicazioni di chi incontra casualmente.
Un caos enorme, insomma: il desiderio di uscirne fino a rasentare la pazzia, le voci di chi dice cosa fare, la paura di compiere un passo falso, la troppa energia che richiede non avere mai un momento di tregua, la destabilizzazione di non avere punti di riferimento e l’avvilimento costante quando, certa di essere quasi in salvo, si ritrova nello stesso punto da cui era partita.
Per non parlare della situazione in cui, magari, quella relazione è extraconiugale, con tutte le caratteristiche ancor più angoscianti che si porta dietro.
Quanto è comprensibile che quella donna decida solo di fermarsi lì? Vorrebbe uscire... ma è sfiancata e ha paura: ogni passo che ha compiuto, con l’illusione di farcela, l’ha portata a una delusione.
Ecco perché il mood del mio metodo è Stai ferma lì, vengo a prenderti io.
Partiamo da me.
Io sono un’educatrice e una counselor filosofica. Ciò che conosco è il frutto dello studio dei contenuti condivisi da professionisti e scienziati competenti. Sono trent’anni che studio testi, partecipo a convegni, guardo e riguardo i video in cui spiegano concetti complessi, mi relaziono con alcuni di loro, con il massimo rispetto e la massima stima. Loro sono il cemento nel quale io ho basato le mie fondamenta. Loro mi danno quella conoscenza che a me serve per costruire al meglio i percorsi educativi, rieducativi, i progetti e le consulenze; e sono quelli che mi permettono di essere il più oggettiva possibile quando faccio ricerca o quando devo costruire un prodotto (che sia un articolo, un libro, un contenuto filmico) che abbia un buon potenziale educativo, funzionale ed efficace.
Userò spesso questi due termini, perché sono i miei pesi: funzionale (ha la potenzialità di favorire il raggiungimento dell’obiettivo specifico?) ed efficace (funziona davvero?).
Ho studiato fin da giovanissima le scienze umanistiche e quelle che interagiscono: la filosofia, la psicologia, la pedagogia, la sociologia, l’antropologia, la biologia e via dicendo. Non ho mai smesso, continuo a studiare imperterrita, non posso farne a meno. Il sentire umano mi affascina. Le persone e le società mi affascinano. Vedere le persone soffrire, invece, mi fa stare male. Soprattutto quando penso che, se avessero gli strumenti per capire le dinamiche di relazione interpersonale e gestirle con consapevolezza, potrebbero vivere molta meno sofferenza.
Ho lavorato parecchio sul mio potenziale empatico (cognitivo e affettivo) e sui metodi di comunicazione per capire come educare e rieducare le persone alle relazioni interpersonali, affettive e non, per far sì che potessero imparare a gestirle in modo costruttivo.
Sono un’educatrice, come dicevo, quindi, il mio compito non è né sentenziare né dispensare verità, ma contribuire alla crescita umana della persona, a qualsiasi età (anche se siamo abituati a legare il concetto di Educazione solo ai bambini o ai ragazzi).
I campi dell’educazione sono tantissimi e si differenziano nei metodi, nei contenuti, nel linguaggio e in diversi altri aspetti ancora, ovviamente, ma sono tutti accomunati da un aspetto: un percorso educativo è più efficace quanto più è personalizzato e centrato sull’educando, l’individuo che deve crescere, che deve lasciare la situazione in cui si trova per raggiungerne una migliore.
Chi si trova nella condizione di immobilità emotiva (dissonanza cognitiva) perché coinvolta in una relazione tossica ha bisogno di affrontare un percorso di rieducazione mediante il quale riappropriarsi con consapevolezza delle proprie capacità di scelta e di azione.
Durante i percorsi educativi affrontati, ho capito che posso essere efficace e funzionale nel favorire la crescita umana di una persona in crisi solo se – sospendendo il giudizio, accogliendo e comprendendo – riesco a calarmi nei suoi panni pur restando obiettiva e a usare un linguaggio adeguato, affinché possa affidarsi, capirmi e seguirmi nel guadagnare l’uscita dal labirinto emotivo in cui è finita.
Quel che dico genericamente alle persone che mi chiedono una consulenza è questo:
“Se mi stai chiedendo aiuto è probabile che tu abbia appena scoperto di essere vittima di manipolazione, o comunque invischiata in una relazione tossica. O che tu ne sia consapevole da tempo, ma non trovi la direzione necessaria da prendere per uscirne.
Forse hai già letto centinaia di contenuti sul web, andando a cercare la testimonianza in cui riconoscere totalmente ciò che è successo a te, ma in ognuno dei racconti hai trovato qualcosa che ti ha messo il dubbio che forse no... forse lui non è proprio un manipolatore maligno o forse la vostra relazione non è proprio tossica.
Forse hai ingigantito tutto sull’onda di quello che altri ti hanno detto.
Forse sei stata davvero tu a rovinare tutto, se questo ti ha detto lui.
Forse basterebbe credergli un’ultima volta, provarci ancora e saprebbe dimostrarti che ti ama, e tutto tornerebbe a
essere magnifico.
Forse hai ancora dubbi o forse sai già - razionalmente - che devi uscirne, ma non hai capito esattamente cosa devi fare.
Non devi fare niente, per ora. Non devi decidere nulla.
So che costa fatica anche quello, perché in certi momenti l’angoscia e la sensazione di non poterti più fidare di te stessa
ti schiacciano il respiro fino a farti sentire stremata, e senti che se non fai qualcosa impazzisci. Lo so.
Se deciderai di affrontare il percorso con me, tu dovrai solo stare ferma lì e io verrò a prenderti.”
Hai mai visto il film Argo? È un lungometraggio (che ti consiglio di vedere) che ha fatto incetta di Oscar e tantissimi altri premi prestigiosi. Film in cui Ben Affleck (nei panni di Tony Mendez) parte dagli Stati Uniti per andare a Teheran e riportare a casa sei diplomatici americani rifugiatisi all’ambasciata canadese durante la rivoluzione islamista. È un film, ma racconta fatti realmente accaduti. Sembrava impossibile portarli fuori dall’Iran. I burocrati americani avevano ipotizzato soluzioni per le quali i sei avrebbero potuto, per esempio, attraversare l’Iran in bicicletta. Ma Ben Affleck, esperto in esfiltrazioni, non ci sta: sa che dire loro “Fate così, noi vi aspettiamo al confine” sarebbe come mandarli a morte certa. Sa che è necessario andare lì dove si trovano, istruirli, guidarli e accompagnarli verso la salvezza, stando loro accanto.
Ideando una copertura al limite della creatività, li raggiunge, si amalgama al gruppo, li istruisce a una narrazione alternativa della loro identità facendo loro ripetere all’infinito ciò che devono necessariamente apprendere, se vogliono uscire da lì, e poi li guida in un viaggio di ritorno difficile, impegnativo e rischioso. Ma, da soli, non ce l’avrebbero mai fatta.
Ecco. Io non sono esattamente Ben Affleck, ma con questo mio metodo verrò a cercarti nell’esatto stato emotivo in cui ti trovi, attraverso il counseling elaborerò insieme a te certi concetti all’infinito e in modi diversi affinché tu possa introiettare una narrazione alternativa alla situazione in cui sei finita e ti mostrerò che c’è una via d’uscita. Devi solo seguirmi.
Saremo tu e io.
Ben Affleck, quando arriva a Teheran e si trova davanti ai sei rifugiati, non dà tante spiegazioni. Dice loro che è lì per portarli fuori. Loro vogliono sapere come.
Lui spiega loro il piano che ha ideato e preparato nei minimi particolari. Un piano talmente da film che i sei restano sconcertati: hanno mille dubbi che possa riuscire e considerano Ben Affleck un pazzo scatenato e irresponsabile. Ma quale alternativa hanno? Provarci da soli, buttarsi in mezzo alla strada e affidarsi alla fortuna, sperando di non finire impiccati o con la gola tagliata.
Lui, dal canto suo, sa che il piano può funzionare solo se tutto va come deve andare. Ha provato a prevedere più variabili possibili e a disegnare il percorso ideale per evitare che quelle variabili mettano a rischio la riuscita. Ha paura anche lui, sia chiaro, perché non sa come potranno reagire i sei nelle diverse fasi del piano e non sa esattamente quali variabili esterne inaspettate potranno intervenire.
Ne sente il peso, ma fa di tutto per dare la sicurezza necessaria affinché i sei si affidino a lui totalmente.
Ecco perché penso che sia utile spiegarti come sono arrivata a ideare un metodo educativo piuttosto creativo ed esclusivo. Le relazioni tossiche hanno dinamiche talmente complesse che, per tirare fuori chi ci è finito, c’è bisogno di un piano alternativo rispetto a ciò che siamo abituati a vivere nella normalità.
Dopo anni di studio sui disturbi della personalità, non riuscivo a capire perché, se ovunque è possibile reperire materiale condiviso da professionisti che spiegano perfettamente come uscire da una relazione tossica, le persone in sofferenza non riuscissero a mettere in atto le strategie consigliate.
Come se da una parte ci fossero i professionisti, capaci e competenti, a elargire parole e concetti di aiuto e, dall’altra, le persone che soffrono e non sanno capire come ci si emancipa da quella sofferenza, come se ne esce.
Ho avuto la sensazione che in mezzo ci fosse una sorta di parete invisibile, che frammentasse le informazioni, e ho ipotizzato che, ricevendo le informazioni frammentate, i sofferenti non avessero la possibilità di capire in modo chiaro cosa dovessero fare.
Poi ho pensato, invece, che funzionasse esattamente come in quel film: le indicazioni dei burocrati ai sei rifugiati avrebbero, sì, insegnato la via per uscire dall’Iran, ma durante il percorso quei sei avrebbero incontrato talmente tanti ostacoli, bivi e situazioni devianti, che la riuscita sarebbe stata per forza di cose un’incognita. Non che i sei fossero degli inetti, ma si trovavano in una situazione talmente confusa, caotica e lontana da ciò̀ che conoscevano, che non avrebbero avuto gli strumenti per affrontare le variabili di percorso inaspettate. I burocrati erano assolutamente necessari: solo loro erano in grado di fornire le risorse per garantire che il piano fosse attuabile e Ben Affleck potesse andare a prendere i sei.
Risorse (in quel caso soldi e scogli, appunto, burocratici) che Ben Affleck ha trasformato in ciò che di specifico serviva ai sei. Se avesse portato loro i soldi, i sei non avrebbero saputo che farsene, nella situazione in cui si trovavano.
Il ruolo di chi educa, in spiccioli, è proprio questo: usare la conoscenza che i professionisti mettono a disposizione, indispensabile per raggiungere chi ha bisogno di migliorare la propria condizione e per mettere in atto il percorso educativo affinché quelle persone apprendano ciò che serve loro per affrontare il viaggio necessario al cambiamento della situazione. Ma, affinché la conoscenza scientifica sia fruibile da parte di chi si trova in una certa situazione, serve che l’educatore la trasformi in un linguaggio facilitato: deve tradurre i concetti in modo che chi deve apprenderli possa capirli e usarli.
Ho quindi deciso che dovevo fare questo:
- approvvigionarmi della conoscenza (dagli scienziati e dai professionisti),
- elaborare un piano educativo (basandomi sulla conoscenza, capire quali strategie potevo mettere in atto per educare i manipolati a emanciparsi dalla situazione di immobilità emotiva),
- assumermi la responsabilità di tradurre quei concetti così complessi in ragionamenti semplici e parole che facessero parte del quotidiano di quelle persone, in modo da permettere loro di seguirmi facendo meno fatica possibile.
Quando ho iniziato a fare l’esfiltratrice, però, ho avuto subito chiaro che c’era un problema. Davo appuntamenti bisettimanali di due ore. La persona arrivava, ci aggiornavamo su cosa fosse accaduto durante i giorni in cui non ci eravamo viste e poi proseguivamo a parlare ma, nel momento in cui si arrivava alla profondità di dialogo ideale per elaborare le questioni complesse, scadeva il tempo. Interrompere era avvilente e nella seduta successiva accadeva la stessa cosa.
Inoltre, tra una seduta e l’altra, capitava che qualcuno si ammalasse o avesse impegni, quindi la seduta slittava. O che alla persona succedessero cose che andavano a minare gli step intermedi che avevamo raggiunto, e toccava quasi ripartire da capo, o comunque fare deviazioni di percorso che toglievano energia e determinazione.
Qui ho fatto una scelta alla Ben Affleck: “Per esfiltrare, abbiamo 48 ore! È difficile, impegnativo e rischioso, ma se vi affidate e mi seguite, ne usciamo vivi tutti.”
Ecco perché questo metodo ed ecco perché un piano alternativo e creativo.
Chi mi chiede una consulenza deve essere disposto a uscire dal mondo, per quarantotto ore. Per decidere di chiudersi con me in un appartamento deve essere consapevole che quando uscirà saranno cambiate moltissime cose, perché io sarò più oggettiva possibile e noi non siamo abituati all’oggettività: l’oggettività in un certo modo fa male. Ma io sono lì, sempre. Mi adatto ai tempi dell’altro e ai suoi stati d’animo, tenendo ben presente l’obiettivo.
In tutto questo, non esprimo mai un giudizio sulla persona; non perché mi so gestire e giudico senza dirlo, ma perché giudicare mi farebbe perdere - tempo e soprattutto – di vista l’obiettivo. Il mio compito è solo quello di portarla via.
A me non cambia nulla che la persona sia arrivata lì per un motivo o per un altro, o che si sia lasciata fare cose che si vergogna a dire.
Io ho bisogno di saperle. Sapere cos’ha vissuto per capire come portarla via.
Altrimenti è come se Ben Affleck avesse avuto delle informazioni sbagliate sui sei... avrebbe messo in atto strategie inadeguate. E ho bisogno di saperle per capire come addestrare la persona a riconoscere certi comportamenti come alertdi situazione tendenzialmente pericolosa.
Insomma, ho pensato che quando stai male, sei stremata e/o ti senti in pericolo, vorresti solo fermarti e non dover più fare e decidere niente. Vorresti che arrivasse qualcuno che ti prendesse e ti portasse al sicuro. E ho strutturato questo metodo perché mi sembra il più appropriato per farlo.
Qualunque metodo efficace va bene, sia chiaro. Questo è il mio: counseling e educazione. In quelle quarantotto ore, ci si estranea completamente dal mondo (telefoni spenti) e si intrattiene un dialogo continuo. Lavoro così.
Non ti annoio oltre con il metodo. Volevo spiegarti che non è una scelta casuale e da dove vengono i miei strumenti.
Nella mia testa, quando penso a una donna che non riesce a uscire da una relazione tossica, vedo un LABIRINTO dentro al quale si sta sfinendo nel cercare l’uscita, tentando vie cieche o affidandosi alle indicazioni di chi incontra casualmente.
Un caos enorme, insomma: il desiderio di uscirne fino a rasentare la pazzia, le voci di chi dice cosa fare, la paura di compiere un passo falso, la troppa energia che richiede non avere mai un momento di tregua, la destabilizzazione di non avere punti di riferimento e l’avvilimento costante quando, certa di essere quasi in salvo, si ritrova nello stesso punto da cui era partita.
Per non parlare della situazione in cui, magari, quella relazione è extraconiugale, con tutte le caratteristiche ancor più angoscianti che si porta dietro.
Quanto è comprensibile che quella donna decida solo di fermarsi lì? Vorrebbe uscire... ma è sfiancata e ha paura: ogni passo che ha compiuto, con l’illusione di farcela, l’ha portata a una delusione.
Ecco perché il mood del mio metodo è Stai ferma lì, vengo a prenderti io.